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Il pane di una volta (Azienda agricola "Le Gemme" di Villa Rossa di Martinsicuro)

Dal granaio alla tavola

Francesco Galiffa

La "carticina". (Museo della Civiltà contadina di Controguerra)
La “carticina”. (Museo della Civiltà contadina di Controguerra)

Fino alla metà del passato secolo l’economia della famiglia contadina dipendeva quasi esclusivamente dalla produzione del grano. Una parte era destinata a coprire gli oneri della trebbiatura (2-3% della quantità prodotta), gli affitti degli artigiani (sarto, ciabattino, fabbro, ecc…) ed anche dei professionisti (veterinario e medico). Una piccola porzione era offerta poi alla Chiesa come atto di ringraziamento per il buon esito del raccolto, un gesto che ricorda quello che gli antichi solevano fare in onore della dea Cerere: in una domenica collocata tra la fine di luglio e l’inizio d’agosto, le donne si recavano in chiesa per depositare ai piedi dell’altare una canestra di grano. Il frumento costituiva anche il contributo dei contadini per l’organizzazione delle feste religiose e, dal Secondo Dopoguerra, di quelle dei partiti politici; un piatto di grano, inoltre, rappresentava l’elemosina elargita ai frati “cercatari” e ai mendicanti, i quali, in segno di riconoscenza, recitavano “do diasille e nu requiammaterna pe l’anime sante de lu Pergatorie”.

Assolti questi impegni, il capofamiglia stimava il fabbisogno alimentare per l’intero anno e decideva la quantità da destinare alla vendita, che, generalmente, non era molto elevata; col denaro ricavato, comunque, si potevano fare diversi acquisti (abbigliamento per tutti i membri della famiglia e biancheria per la dote delle figlie da maritare) o per l’azienda (animali o attrezzature). Anche l’alienazione di una quantità limitata, comunque, forniva risorse finanziarie importanti perché il valore del frumento nel passato era molto più alto dell’attuale. Nel mercato settimanale di Nereto, 1 tomolo di grano era quotato ducati 1,80 a gennaio e 2,10 maggio, mese in cui cominciava a scarseggiare. Se confrontiamo queste cifre con il costo della mano d’opera nello stesso periodo (la giornata lavorativa di un operaio impegnato a piantare “pascelli” nel 1825 era retribuita con 1/10 di ducato) abbiamo una percezione ancora più precisa del valore del grano. Questi rapporti rimasero sostanzialmente immutati sino agli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale: una giornata di lavoro in campagna, ricorda un vecchio fabbro di Nereto, era retribuita con 4 lire e un quintale di grano era venduto ad 80.

La maggior parte del grano era conservato per il sostentamento della famiglia e, pertanto, era accuratamente e gelosamente conservato in

Il pane di una volta (Azienda agricola "Le Gemme" di Villa Rossa di Martinsicuro)
Il pane di una volta (Azienda agricola “Le Gemme” di Villa Rossa di Martinsicuro)

ambienti idonei (v. scheda). Prima di portarlo al mulino era conciato e pure lavato.

Fino a 60-70 anni fa mulini erano, per la maggior parte, azionati dall’energia idraulica e, pertanto, erano collocati lungo i corsi dei fiumi (v. scheda); per il trasporto dei sacchi si usava il carro trainato dai buoi e per raggiungerli si doveva percorrere spesso un lungo tratto di strada. A confermare la rilevanza del ruolo sociale di queste strutture, le vie che conducevano ai mulini erano quelle curate con più attenzione dalle amministrazioni comunali.

Il consumo annuale di grano per persona variava di molto tra le varie categorie sociali. Da un attento esame del “Ruolo del dazio sul macino” del Comune di Corropoli relativo al 1837 si desume che esso si attestava in media intorno ai 4 tomoli pro capite, con una punta massima di 6 e una minima di 2. I contadini erano, in genere, quelli che avevano una maggiore disponibilità (5 tomoli in media), mentre i piccoli “artigiani”, come le filatrici, si dovevano accontentare di 2. Le classi più povere, per soddisfare le esigenze alimentari, sopperivano alla carenza di grano con il mais, la cui farina era mescolata, “appiecata”, con quella del cereale più pregiato per realizzare pasta e pane. Poiché un tomolo corrispondeva a 46 kg circa, i nostri antenati nel 1800 consumavano, in media, intorno ai 184 kg di grano pro capite, quantità riscontrata anche in altre statistiche e in linea con la quota assegnata nella famosa “tessera” in uso durante la Seconda Guerra Mondiale. Per completezza d’informazione è necessario informare il lettore che da una quantità simile di grano si ricavavano circa 145 kg di farina.

La farina è stata per millenni la materia prima basilare per la preparazione di numerosissimi piatti, frutto della fantasia e dell’abilità delle donne di casa; un decennio fa, chi scrive e i suoi alunni della Scuola Media di Controguerra hanno raccolto parecchie ricette in un apprezzato e ormai introvabile volumetto intitolato “Acqua&Farina”. La prima riguardava il pane, alimento così indispensabile da essere in cima alle richieste contenute nel “Pater noster”: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

La conservazione del grano

 

«Buona parte del grano doveva essere tenuto in serbo fino a luglio dell’anno successivo e bisognava conservarlo nelle migliori condizioni possibili. Chi possedeva una casa spaziosa, dotata di molti vani, ne destinava uno proprio a questo scopo; esso era situato al piano superiore, dove gli ambienti erano più asciutti. Il grano era svuotato dai sacchi e sparso sul pavimento. Per conservarlo e proteggerlo meglio, soprattutto se all’atto della trebbiatura era un po’ umido, il contadino lo disinfettava col solfuro, acquistato al Consorzio Agrario in fiasconi da 10-15 litri. Sigillava con colla e strisce di carta gli infissi, lasciando aperta solo mezza porta; proteggendosi bene le vie respiratorie, versava il prodotto in un annaffiatoio e lo spargeva sul grano; chiudeva ermeticamente, infine, anche l’altra metà dell’apertura. All’interno della stanza si sprigionava un gas che soffocava tutti gli animaletti presenti. A volte, approfittava dell’occasione per disinfettare anche gli indumenti di lana. Lasciava chiuso l’ambiente per una quindicina di giorni; poi apriva gli infissi e faceva arieggiare bene il locale.

Chi disponeva di meno spazio era costretto ad ammassare il frumento in contenitori, collocati spesso in stanze adibite anche ad altri usi: potevano essere ospitati pure nella  camera da letto. In circolazione ce n’erano diversi tipi: coloro che se lo potevano permettere, avevano un “arcò” o un “casciò”, contenitori di legno molto alti, capaci di accogliere anche venti quintali; la loro costruzione richiedeva gli attrezzi e l’arte del falegname. Un contenitore più “povero” era la “carticina”, un cilindro realizzato artigianalmente usando canne spaccate e incrociate.»

(AA.VV. “Il tesoro dei nonni”, Istituto Comprensivo di Colonnella, Colonnella 2005, pp.93-94)

Il mulino ad acqua

Antico mulino della famiglia Di Giovannantonio
Antico mulino della famiglia Di Giovannantonio

Se oggi la farina può essere comodamente acquistata in un supermercato, fino a circa 2000 anni orsono si poteva ottenere solo con l’uso di strumenti domestici o ricorrendo a strutture più grandi, le cui macine erano girate dalla forza degli schiavi o degli animali. Dal I secolo a.C. i nostri antenati ebbero la geniale intuizione di usare l’acqua come energia e lungo i corsi dei fiumi e dei torrenti cominciarono a diffondersi mulini che utilizzavano questo bene naturale.

La presenza diffusa sul territorio europeo dei mulini ad acqua si ebbe, comunque, solo dopo l’anno Mille, quando la stabilità politica e la relativa prosperità economica provocarono una notevole crescita demografica, con il conseguente aumento del fabbisogno alimentare. Se nell’economia feudale il Signore era proprietario dell’acqua e, conseguentemente, dei mulini, in quella comunale cominciò a prendere corpo il concetto di uso pubblico delle risorse e quella del mugnaio divenne un’attività “artigianale”; l’uso delle acque era rigidamente regolamentato e soggetto a tassazione, in quanto dalla sua utilizzazione se ne poteva ricavare un guadagno.

In provincia di Teramo, che fino alla creazione di quella di Pescara si estendeva sino all’omonimo fiume, nel censimento del 1869 se ne contavano 291, di cui 232 erano ancora in funzione durante la Seconda Guerra Mondiale.

Quelli in attività oggi sono pochissimi; ne segnaliamo uno facilmente raggiungibile, situato sulla sponda destra del fiume Tordino, in Località Casemolino di Castellalto. Fu costruito da Gregorio Marcozzi nei primi anni del 1800, periodo in cui il Governo Francese rilasciò numerose concessioni per la costruzione di nuovi mulini. Dal 1930 la struttura è passata nelle mani della famiglia Di Giovannantonio, una dinastia di mugnai. Oggi Mario, un signore dall’età indefinita e parco di parole, segue con andamento flemmatico l’andare lento di due mulini a pietra azionati dalla corrente elettrica, collocati nelle vicinanze del vecchio mulino ad energia idraulica. Quest’ultimo, dopo alcuni anni di abbandono, è tornato a funzionare, seppur per finalità didattiche, per merito del figlio Luigi, dinamico e affaccendato in mille iniziative. Il visitatore si trova di fronte una struttura perfettamente funzionante. Nel piano inferiore, collocato sotto il livello della strada, sono ospitati due apparati motore, costituiti da una serie di “palelle”, una specie di cucchiai, ancorati a “lu retrocene”, l’albero motore che mette in movimento le macine collocate nei locali sovrastanti. Ad attivare il tutto è l’acqua, captata dal fiume attraverso un formale lungo 4 km e accumulata nel “bottone”; liberata, investe con forza le “palelle” ed aziona l’intero sistema. I mulini sono due, uno riservato esclusivamente alla molitura di frumento e l’altro utilizzato per macinare mais e legumi, destinati soprattutto all’alimentazione degli animali. Oltre alla struttura produttiva, Luigi ha reso vivibili anche gli ambienti adibiti ad abitazione della famiglia del mugnaio, con i relativi annessi, come il forno (funzionante) e il pollaio (oggi usato come magazzino).

Una bella struttura da visitare e far visitare, soprattutto ai bambini.

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