QUANDO LA TIMIDEZZA DIVENTA UN PROBLEMA?

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A cura della Dott.ssa Valeria Conocchioli

La timidezza traduce un senso per lo più abituale di disagio provocato da timore, pudore o soggezione, che si realizza in un comportamento esitante e impacciato, talvolta anche scontroso. È un sentimento che si presta alle più svariate interpretazioni. Coinvolge infatti un’ampia gamma di emozioni e a diversi gradi di intensità: dalla semplice esitazione derivante da pudore o ritegno, al terrore che paralizza e compromette così la qualità delle relazioni sociali.

La stessa etimologia del termine è alquanto dibattuta: chi lo fa derivare dal latino “timēre” (temere), chi dal greco “τιμή” (timè: stima, venerazione) quasi a intendere la titubanza che viene dalla riverenza. Il timore provato deriva dalla percezione di essere “un libro aperto”, di non poter opporre alcuna difesa nei confronti dell’altro che avanza verso di noi invadendo la nostra sfera personale, portando alla luce e giudicando debolezze e insicurezze che vorremmo rimanessero nascoste. Esse derivano spesso dal contesto di appartenenza dell’individuo, dalla sua storia familiare e da pregresse esperienze non molto positive.

Si tratta di aspetti della personalità che hanno radici profonde e, in un certo qual modo,  accompagnano, definiscono e identificano il soggetto. Diversa è invece la timidezza patologica caratterizzata da un’interiorità in cui permangono residui del mondo infantile e sentimenti di vergogna, paura e senso di colpa che l’individuo non riesce a elaborare e accettare come caratteri del proprio io. Da qui la resistenza a confrontarsi con situazioni di coinvolgimento sociale percepite come troppo invasive o che richiedono una messa in mostra di sé e della propria personalità.

La timidezza in questo contesto viene a definirsi patologica in quanto implica nel tempo un malfunzionamento del soggetto nelle relazioni interpersonali e lavorative e conduce a uno stato di sofferenza che spinge all’ adozione di condotte di evitamento. Un intervento adeguato dovrebbe in tal caso proporre un “contesto” rassicurante, distensivo, che permetta di riconoscere, circoscrivere ed elaborare il dolore, superare la fase di negazione attraverso un confronto con il proprio vissuto, abituare il soggetto alla presenza dell’altro e spronarlo al riconoscimento delle proprie capacità.

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