LA CICERCHIA, CENERENTOLA DEI LEGUMI

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La cicerchia Di Francesco Galiffa

In questo numero ci occuperemo della cicerchia (Lathirus sativus), un legume da sempre poco apprezzato e quasi del tutto sconosciuto alle nuove generazioni. Si tratta di una pianta annuale, che somiglia alla veccia; nei suoi baccelli contiene semi ovali, più grossi dei piselli, un po’ schiacciati, quasi come i lupini. Reperti fossili riportati alla luce in siti archeologici della Mesopotamia ne attestano la presenza nell’8000 a.C. e fonti storiche ci dicono che fu domesticata verso il 6000 a.C. nella Penisola Balcanica e che trovò una larga diffusione nel Bacino del Mediterraneo.

Si semina all’inizio di aprile e si raccoglie alla fine di luglio/inizio di agosto; non ha bisogno di colture particolari, cresce anche in condizioni difficili, resiste alla siccità, si adatta a terreni poco fertili e a temperature basse, condizioni proibitive per la maggior parte delle leguminose. Testimonianze storiche e orali confermano la sua coltura anche nelle nostre aree collinari con una produzione interessante in termini quantitativi; nella spartizione dei prodotti, un contadino di Montone, nel 1820, ne riconsegnava al padrone mezzo tomolo (circa 22,5 litri).

Oggi è coltivata soprattutto in Asia e nell’Africa Orientale, mentre in Italia è seminata solo in piccole aree della Puglia, dell’Umbria, della Toscana, delle Marche, del Molise e dell’Abruzzo; nell’ultima regione è stata rivalutata soprattutto nelle zone più alte dell’Aquilano, in particolare a Castelvecchio Calvisio, dove dal 1979 ha luogo la “Sagra della cicerchia”; un’analoga iniziativa è nata, allo scadere del passato Millennio, a Serra de’ Conti, nell’entroterra anconetano.

La ristrettezza delle aree in cui si coltiva ne limita la produzione e, per una legge di mercato, automaticamente il suo prezzo risulta alto, anche 5-7 € al kg; esso è superiore a quello delle lenticchie e degli altri legumi, a differenza di un paio di secoli orsono, quando, nell’Abruzzo Ultra Secondo (L’Aquila), una soma di cicerchia era pagata un ducato e ottanta grani mentre lo stesso quantitativo di lenticchia piccola e di ceci bianchi costava due ducati e grani quaranta; nel passato, il costo di un prodotto era direttamente proporzionale al suo pregio!

Come tutti i legumi, la cicerchia ha caratteristiche nutrizionali interessanti, sia per l’elevato contenuto di proteine, vitamine e fibre sia per la scarsa quantità di grassi. Nonostante queste proprietà, però, nell’alimentazione umana non ha riscontrato mai un grande successo per la durezza della buccia ed anche a causa di alcune proteine dannose che contiene; se consumata in grande quantità o ammollata e cotta in modo inadeguato, infatti, produce una sindrome neurotossica, il “latirismo” (dal nome scientifico della cicerchia), che provoca convulsioni e paralisi, negli uomini e negli animali.

Per questi motivi, nel corso dei secoli, l’uomo si è nutrito di cicerchia soltanto quando non c’era altro da mangiare; la considerava più una biada per gli animali. A differenza di altri legumi, infatti, essa non compare nella cucina di Apicio, ma non poteva essere altrimenti se si considerano le abitudini alimentari dei ceti sociali a cui erano destinate le sue ricette; questo chiaramente non esclude che fosse consumata, in caso di necessità, dalla parte più povera del popolo romano, come di quello greco, soprattutto da «color che duran fatica», come scrive nel Trattato della agricoltura, pubblicato nel XIII secolo, Piero de’ Crescenzi, il quale racconta anche che «Gli uomini l’usano lesse, e nella torta e nel pane con altre generazioni di biade per le famiglie». Più preciso sul modo di utilizzarla in cucina è Bartolomeo Scappi, nel Cap. CCXXIIII del Quinto Libro della sua monumentale «Opera», il più attendibile testo di gastronomia dell’epoca delle Signorie: egli detta una ricetta «Per fare torta di piselli secchi, e altri legumi (cece, fagiolo, lenta e cicerchia, ndr)». Dopo averli ammollati, si fanno cuocere i legumi e si pestano nel mortaio aggiungendo «per ogni libra d’essi, quattro once d’amandole ambrosine piste con essi, e così passisi per il foratoio, et giungasegli un poco del suo brodo grasso, e quattro once di cipollette battute soffritte, e una manciata di barbuccie battute, et quattro once d’uva passa di Corintho netta, un’oncia di pepe, mezz’oncia di cannella, sei once di zuccaro, e zafferano a bastanza; faccisi la torta con due sfogli, e cuocasi al forno, o sotto il testo, e come è presso a cotta, facciasegli la crostata di zuccaro, e acqua rosa».

Nel corso dei secoli le cicerchie sono state utilizzate per fare minestre, zuppe, minestroni e purea. La preparazione più comune, presente in molte regioni, è senza dubbio la “Minestra con le cicerchie”, molto simile a minestre realizzate con altri legumi, che M. Giuseppina Truini Palomba così descrive: «Dopo averle lasciate in ammollo per una notte intera, le cicerchie sono cotte in acqua e sale, insaporite con un soffritto di aglio, cipolla e prezzemolo in olio d’oliva, con l’aggiunta di pomodori pelati, sale. Vi si potranno cuocere dei tagliolini all’uovo oppure delle sagnette acqua e farina oppure si potrà mangiare come zuppa su fettine di pane casereccio strofinato con l’aglio. In quest’ultimo caso, irrorare con un filo d’olio d’oliva».

Nel Salento si usa consumarle, più semplicemente, al naturale, condite con olio ed erbe: vogliono solo buon olio extravergine (crudo, versato direttamente sul piatto), sale, erbe aromatiche sbriciolate all’istante (timo, serpillo, santoreggia, rosmarino, ecc.). Vanno accompagnate con pane integrale fatto in casa. In quest’area dell’estremità della Puglia, dalle cicerchie essiccate e macinate si ottiene anche una farina, chiamata in dialetto “patacò”, che può essere usata per preparare polente, crespelle, focacce fritte o al forno.

Anche nella Valle del Fino e in quella del Tavo, rispettivamente nelle province di Teramo e di Pescara, si usa ricavare dal nostro legume una farina finissima, che le brave e accorte massaie di una volta, abituate a fare di necessità virtù, mescolavano ad altre farine per ricavarne la “Fracchiata”, che deve il suo nome al verbo latino “frango” (frangere, pestare). La sua storia risale sicuramente a tempi molto lontani; ne fa cenno, in un’opera dei primissimi anni del 1800, anche Berardo Quartapelle, il quale, pur avvertendo che la cicerchia «dà un’alimento agli Uomini di mediocre qualità», scrive: «La sua farina mescolata con quella de’ ceci serve per farne una specie di polenta, ed anche delle fritture, e c.». La miscela poteva prevedere anche farine di altri legumi e di cereali, farro e mais soprattutto. La preparazione è sopravvissuta all’oblio ed è inserita nell’Atlante dei prodotti tipici abruzzesi.La Fracchiata

Essendo legato alla cultura gastronomica popolare, di questo piatto sono state codificate diverse versioni, riportate nei testi di Rino Faranda, di Luigi Braccili e di altri autori, che si distinguono soprattutto per il condimento; quella più semplice prevede una salsa realizzata soffriggendo nell’olio, rigorosamente di frantoio, aglio e peperoni dolci secchi frantumanti. Le famiglie più benestanti aggiungevano le alici sotto sale, passate nella pastella e fritte; il connubio peperoni fritti e alici sciolte nell’olio era molto usato nella cucina contadina per condire paste o, più semplicemente, per ungere una buona fetta di pane cotto nel forno a legna. Una versione, forse più moderna, sostituisce le alici sotto sale con quelle fresche. Il palato di chi scrive ha avuto la fortuna di gustare la prima versione presso il ristorante “La Bilancia” di Loreto Aprutino, dove Sergio e Antonietta la offrono secondo la ricetta tramandata dalla madre e prima ancora dalla nonna e bisnonna, senza le sovrastrutture di ordine cultural-gastronomico di cui fanno sfoggio molti chef stellati nel “rivisitare” le ricette della cucina tradizionale. Piatto cremoso, pieno di sapori e nello stesso tempo delicato; assolutamente delizioso!

Con questa ricetta, la sapienza, la pazienza e le mani fatate delle donne di casa hanno fatto il miracolo di trasformare la cicerchia da Cenerentola in Principessa.

La Fracchiata di mamma Angela*

Ingredienti per 8 persone

 

500 g di farina di legumi (70% di cicerchia, 15% di ceci, 10% di fave e 5% di piselli);

1 decilitro d’olio di frantoio;

3 litri d’acqua;

4 spicchi d’aglio in camicia;

4 foglie di alloro fresco;

100 g circa (la dose più essere aumentata a piacere) di peperoni dolci secchi, chiamati comunemente “farfalloni”, “bastardoni” o “guard’in cielo”;

8 fette di pane casereccio tostato e tagliato a tocchetti;

Sale q.b.

 

Procedimento

 

Riscaldare in una pentola 3 litri d’acqua, facendo attenzione che non giunga a ebollizione; salare. Nel frattempo, scaldare in una padella una parte dell’olio e dare colore all’aglio; aggiungere le foglie d’alloro e una parte dei peperoni frantumati; farli friggere per qualche secondo, avendo cura di non farli bruciare, e versare il tutto nella pentola contenente l’acqua. Iniziare a versare la farina a pioggia, girando in continuazione con un mestolo di legno o una frusta per evitare grumi; aggiustare di sale e mescolare ancora per 40 minuti circa, fino a quando il composto diventa cremoso.

Nel frattempo soffriggere la parte restante dei peperoni nell’olio rimasto.

Collocare una parte dei crostini di pane tostato sul fondo di un piatto da portata e versarci sopra la Fracchiata. Condire con l’olio e i peperoni fritti, che costituiscono, insieme al resto dei tocchetti di pane, la guarnizione finale.

 

* La ricetta e la foto del piatto sono state gentilmente fornite da Sergio Di Zio, patron del ristorante “La Bilancia” dal 1974.

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